debito pubblico

Debito pubblico? No, grazie

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Debito pubblico? No, grazie

Ma perchè tutti ne parlano e pochi spiegano cosa sia, perchè esiste, nelle mani di chi è, cosa succederebbe se non lo si riuscisse a ripagare e, soprattutto, bisogna proprio ripagarlo?

Cos’è il debito pubblico

Il debito pubblico è il debito che lo Stato contrae al fine di soddisfare il proprio fabbisogno. Ossia le risorse necessarie per far sì che la macchina statale, fatta di servizi e investimenti, funzioni.

La differenza tra entrate e uscite di uno Stato è detta saldo primario.

Attenzione! Nell’operazione di calcolo vanno però aggiunti gli interessi sul debito precedente che uno Stato paga ai suoi creditori. Tieni presente questa voce perchè è forse la parte più importante, e dopo vedremo il motivo.

Quando le entrate sono inferiori alla somma di uscite e spese per interessi si è in presenza di un deficit. Il debito pubblico può essere definito anche come la stratificazione, anno dopo anno, dei deficit. 

Come si ottiene credito?

Un Paese ottiene credito tramite l’emissione di obbligazioni, che differiscono tra loro per caratteristiche e durata. Gli strumenti più utilizzati sono i Btp, Cct, Bot ecc.. Minore è il loro valore, maggiore sarà il tasso di interesse che lo Stato dovrà rimborsare a scadenza. La differenza tra saldo primario e deficit indica quanto pesi la spesa per interessi.

Il Paese produce da anni un avanzo primario (le entrate sono maggior delle uscite), ma resta in deficit e continua ad alimentare il debito pubblico perché continua a dover rimborsare i creditori. Mentre il saldo primario può essere controllato anche contraendo la spesa pubblica, la spesa per interessi dipende anche da fattori esterni, che impattano sui tassi. 

Chi detiene il debito pubblico

Si parla molto della sostenibilità o meno del debito pubblico italiano e sui parametri da utilizzare per valutarlo. Tra questi si cita spesso la ricchezza privata (che in Italia è alta) e la distribuzione del debito. C’è chi pensa che potrebbe essere più rischioso che il debito sia a disposizione di privati e operatori esteri. Si stima, ma non è certo, che sia in mani estere circa un terzo del debito pubblico.

L’andamento del debito pubblico italiano

Secondo i criteri di Maastricht, uno Stato dovrebbe avere un rapporto debito/Pil inferiore al 60% o almeno dare segnali di riduzione (sempre in rapporto al prodotto interno lordo). Un debito eccessivo potrebbe portare un Paese a non rispettare i propri impegni, e quindi al default.

Dopo gli accordi di Maastricht e l’arrivo dell’euro (che ha ridotto i tassi sui titoli di Stato), c’è stato un calo. Il debito però, sia per una contrazione del Pil sia per l’esigenza di maggiore spesa pubblica, tende ad aumentare in fasi di stagnazione o recessione. Ecco perché ha avuto un nuovo sussulto dopo la crisi finanziaria del 2008, per poi appiattirsi negli ultimi anni. Ma oggi…?

Il problema del debito pubblico non è il suo rimborso, ma dei costi necessari per rinnovarlo e delle conseguenze possibili, che dipendono dallo stato della fiducia.

La gran parte degli economisti italiani, dopo aver assecondato la crescita del debito pubblico italiano a cominciare dalla crisi petrolifera di inizio anni 1970, concordano nel dire che aumentare l’indebitamento in una situazione come quella che viviamo è pericoloso, ma anche necessario per evitare il peggio e non solo per il debito già in circolazione. Ciò che non convince di questa tardiva conversione è la motivazione: dicono infatti che il debito va rimborsato.

La storia economica insegna che questa preoccupazione non ha fondamento perché, come ci hanno insegnato illustri maestri, i debiti pubblici non vengono mai rimborsati, ma rinnovati sopportando gli oneri relativi.

Se fossero considerati eccessivi, si dovrebbe dichiarare il default, ossia di non volerlo rimborsare. Due altri modi per alleggerire il peso del debito è deprezzarlo con l’inflazione o rinegoziarlo con i creditori per concordare un importo inferiore.

L’idea del rimborso tentò di affermarsi a Maastricht, ma Guido Carli, ben conscio degli effetti, se non proprio dell’impossibilità di farlo, concordò di fare convergere il debito pubblico verso il 60% del Pil; Carlo Azeglio Ciampi calendarizzò con uno specifico accordo i tempi della convergenza.

Anche questa riduzione relativa non si realizzò, nonostante alcuni piccoli progressi ottenuti prima della crisi del 2008, pagati con una perdita di efficacia della politica fiscale e una riduzione strutturale del nostro saggio di crescita reale.

Il problema del debito pubblico non è quindi quello del rimborso, ma dei costi necessari per rinnovarlo e delle conseguenze possibili, che dipendono dallo stato della fiducia che il Paese gode.

Nella disputa in corso sull’uso dell’indebitamento pubblico va tenuto presente che, se la sua destinazione sono gli investimenti, si aumenta il capitale che si lascia ai figli e ai nipoti, consegnando loro un bilancio dove attivo e passivo si equivalgono e, se la crescita reale aumenta, anche qualcosa in più.

Se, invece, è destinato all’assistenza, per giunta con un’insufficiente spinta alla crescita del Pil, come sembra stia accadendo, le spese devono essere finanziate con tasse, contributi europei a fondo perduto o emissione di titoli irredimibili.

Credo che se il dibattito politico non esamini in questo modo il quadro intricato da affrontare e continuerà a pendere da una parte o dall’altra, il Paese non potrà tornare (anche per questo motivo) sulla strada dello sviluppo.

Giuliano Vendrame
02/09/2024

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